Negli ultimi tempi, le politiche di sicurezza attuate da Israele e le azioni del suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, hanno sollevato intense polemiche a livello internazionale. Tra le varie voci che si sono levate, quella di Roberto Orsini al Salone del Libro di Torino spicca per la sua fermezza, etichettando il governo Netanyahu come un caso di ‘terrorismo di stato’. La radice di tali affermazioni risiede negli incessanti bombardamenti e nelle risposte militari israeliane nei confronti dei territori palestinesi, che, secondo Orsini, non farebbero distinzione tra obiettivi militari e civili, provocando un elevato numero di vittime innocenti.
Allo stesso tempo, Gershon Baskin, ex negoziatore israeliano, critica aspramente la mancanza di una strategia chiara nella gestione del conflitto con Hamas da parte di Netanyahu. Secondo Baskin, l’attuale approccio bellico non solo è inefficace ma rischia di irrobustire ulteriormente il potere di Hamas, piuttosto che indebolirlo. L’analisi di Baskin getta luce su una situazione complessa, dove le azioni militari attuali sembrano non solo inadeguate ma anche controproducenti, perpetuando il ciclo di violenza invece di avviarsi verso una soluzione pacifica del conflitto.
L’impegno di Netanyahu di ‘andare fino in fondo’ nella città di Rafah, come riportato da fonti italiane, dimostra la determinazione del primo ministro israeliano di perseguire una politica di forza. Questa posizione, sebbene possa trovare consenso all’interno di una parte dell’opinione pubblica israeliana, solleva questioni urgenti sulle implicazioni umanitarie e sulla legalità internazionale delle azioni compiute. Le critiche rivolte a Netanyahu non sono solo una questione di politica interna di Israele ma diventano parte di un dibattito più ampio sul rispetto dei diritti umani e delle leggi di guerra, questioni fondamentali per la comunità internazionale.